Il parto non è nostro

Uno pensa che quando un parto si complica sia inevitabile. Come genitore.
Uno pensa che se la bimba sta bene e la mamma se la cava con un postoperatorio tutto sommato è andata bene, e ha fatto il suo lavoro, come sanitaria.
Io fortunatamente ho vissuto un primo parto naturale, voglio dire per via vaginale. Ho visto mio figlio uscire dalla mamma grazie agli sforzi di tutti e due, mamma che spingeva e bimbo che seguiva le contrazioni dell’espulsivo con i suoi movimenti. Ho avuto la fortuna di essere a fianco a lei per sostenerla in uno dei momenti di maggiore vulnerabilità di una donna, la fortuna poi di esserci nel primo momento del bebè, di sentirlo mio nell’istante in cui usciva, e di sentire che la funzione di infermiere e ginecologa era di accompagnarci.
Questa volta è stato molto diverso.
Siamo arrivati senza nessuna contrazione, su appuntamento per un induzione programmata per evitare un rischio piccolo ma importante.
Le medicine hanno provocato le contrazioni, guidate dal criterio di un’ostetrica che non seguiva noi né il nostro parto, ma un protocollo applicato in modo freddo e senza nessun tatto, senza interesse verso di noi, come se il bebè fosse un’entità disconnessa e dissociata dalla mamma.
Ha forzato la mano con l’ossitocina perché l’unica cosa importante era ottenere contrazioni ogni 2 minuti. Poi, una volta ottenute, ha continuato a forzare perché il collo dell’utero non si stava dilatando con la velocità “aspettata”.
Nonostante le avessimo fatto capire che volevamo andare piano, che non avevamo impegni, che preferivamo evitare contrazioni troppo violente che rischiavano di far soffrire il feto e provocare un cesario urgente, nonostante le avessimo anche detto che siamo medici pediatri per cui avevamo bisogno di partecipare alle decisioni mediche per poter stare tranquilli, ha continuato a insistere e ad aumentare la velocità dell’ossitocina, asserendo che non comportava nessun rischio, che non differiva da contrazioni naturali, che il corpo ne aveva bisogno perché se no le contrazioni sarebbero scemate, discreditando le nostre inutili preoccupazioni.
Così le contrazioni sono diventate insostenibili per il bebè che ha iniziato a soffrire, solo nell’ultima fase è apparsa la ginecologa,che subito ha tolto l’infusione di ossitocina e aggiunto un farmaco per fermare le contrazioni. Se non che questo farmaco, così come l’antidolorifico che l’infermiera ha iniettato in vena due volte, hanno provocato ipotensione nella mamma, il che ha aggravato la sofferenza del bebè, per cui di corsa in sala operatoria, cesario urgente, la mia compagna con le lacrime, io lasciato fuori, lei sola. Mi hanno chiamato per consegnarmi mia figlia, una sensazione di estraneità così diversa da quel primo parto.
Subito dopo la mamma, con la pancia aperta mentre 4 sanitari continuavano l’operazione, ha iniziato a avvertire un malore, non riesce a respirare. Intanto mi avevano lasciato rientrare, vedo la sua pressione bassissima, allerto l’anestesiologa, dopo 1 minuto mi ritrovo di nuovo fuori con la bimba in braccio, lei sola che non riesce a respirare.
Dopo 20 minuti la portano seminscosciente per i farmaci: aveva sofferto un’ipotensione acuta per emorragia dovuta a ipotonia uterina, la stessa ginecologa mi accenna che era stata provocata dalla medicina che le aveva dovuto dare per frenare le violente contrazioni (nifedipina). Oltretutto sapevamo che sia la nifedipina che le due iniezioni di lidocaina volute dall’infermiera davano ipotensione, e che le aveva decise quando già la pressione era pericolosamente bassa (ovviamente senza consenso né nostro né della ginecologa, aveva semplicemente ordinato all’anestesiologa, in quanto specializzanda alle prime armi.
Sentendo la mancanza di aria la mamma, a utero ancora aperto, aveva avuto una crisi di panico, per cui l’avevano sedata e ancora non era cosciente, la sua bimba lì,tra le mie mani, le mani del papà, che non sapeva come un momento così importante e bello si fosse potuto trasformare in un brutto momento, se avessimo aspettato,se ci avesse ascoltato,cosa ci perdeva a andare con più calma?
Sono passati 5 giorni e non mi do pace, non ho potuto sentire e non sento quella magia, una delle emozioni più belle che abbia provato, dei primi momenti, calpestata dal dispiacere, dal rimpianto, dai sensi di colpa per non aver saputo evitare, per non aver saputo proteggere la bimba e la sua mamma, la mia compagna, per non esserci saputi imporre, per non essere stati abbastanza fermi,non aver reclamato in modo abbastanza convincente che la paternità, il parto, erano nostri.
Il parto è un momento di enorme vulnerabilità e purtroppo, ci si trova indifesi, costretti a affidarsi oltre che alla speranza, almeno in parte, alla sanitaria che è toccata.
Sono passati quasi 6 giorni e ancora non sento che la bimba è mia come padre: non c’ero nei momenti più difficili, non ero lì a sostenere la mamma per accompagnare la bimba a uscire, ero fuori. La bimba me l’hanno consegnata. La mamma, la mia compagna, l´hanno riportata dopo.
L’ostetrica non si è mai scusata, nemmeno ha detto mi dispiace, immagino sia fiera di aver compiuto un’induzione alla regola con cesario eroico andato a buon fine.